Jirishanca: il racconto dal diario di Cassin

Il racconto di Cassin

Nel 1969 ho l’occasione di recarmi nelle Ande, montagne a me ancora sconosciute, e realizzo finalmente un desiderio che da tempo accarezzo. Con vivo entusiasmo mi dedico alla pre­parazione di tutto quanto concerne una spedizione alpinistica.

Nonostante lo sviluppo sempre più vasto di queste imprese, sono molteplici i problemi da risolvere. Anzitutto la scelta di una montagna e di un itinerario che meritino effettivamente l’impegno assunto, poi quella dei partecipanti che debbono rispondere a tutti i requisiti ne­cessari, poi ancora lo studio e la raccolta dei materiali da selezionare ed infine, non ultimo problema, quello dei mezzi finanziari occorrenti. Tutte queste difficoltà vengono superate nel migliore dei modi e con l’attiva e preziosa collaborazione di numerosi amici.

Mi rivolgo all’accademico Giuseppe Dionisi di Torino che, avendo già effettuato spedizioni nella Cordillera Peruviana, è un esperto conoscitore delle Ande. Egli conferma in fondo quello che avevo previsto e cioè che ormai non esistono più in quella zona montagne importanti da conquistare: si deve quindi puntare su qualche versante inesplorato e difficile di cime già vinte per ottenere un risultato all’altezza del prestigio dell’alpinismo lecchese.

Decidiamo cosi per la parete Est del Nevado Yerupayà, di 6634 metri, la vetta più alta della Cordillera Huayhuash: «un problema affascinante e difficilissimo», come afferma lo stesso Dionisi, che ebbe modo di esaminarla da vicino senza poterla attaccare per il maltempo. E’ una parete di ghiaccio di oltre 1200 metri, posta sopra una grossa seraccata.

L’organico della spedizione, che viene chiamata «Città di Lecco», è formato da otto al­pinisti, in buona parte reduci da altre importanti spedizioni extraeuropee: saranno con me Gigi Alippi, Natale Airoldi, Casimiro Ferrari, Giuseppe Lafranconi, Mimmo Lanzetta, Annibale Zucchi e, come medico, Sandro Liati.

Per tre mesi sono occupato a mettere a punto i particolari relativi all’impresa: viene con­cordata la data di partenza, si trovano aiuti e finanziamenti che alleggeriscono almeno in parte l’onere economico, si organizzano e imballano 18 quintali di materiali e viveri che, suddivisi in 50 colli, partono da Genova via nave il giorno 15 maggio.

Con i miei compagni prendo il volo da Linate il giorno 6 giugno su un aereo delle linee peruviane. Dopo una brevissima sosta a Parigi per cambio dell’aereo, saliamo su un possente quadrigetto e, con un veloce volo notturno sull’ Atlantico, all’alba siamo a Rio De Janeiro. Dato che la partenza per Lima avverrà solo alla sera, ne approfittiamo per visitare la me­tropoli brasiliana, impressionante anche per il tumultuoso indescrivibile traffico automobili­stico: tocchiamo i punti più caratteristici e belli, fra i quali la spiaggia e il magnifico mare. La sera partiamo per Lima.

I componenti della spedizione. Da sinistra in piedi Riccardo Cassin e Casimiro Ferrari; davanti Sandro Liati, Mimmo Lanzetta, Annibale Zucchi, Giuseppe Lafranconi, Gigi Alippi e Natale Airoldi
Andinista

Cesar Morales Arnao, «Professor de Andinismo», al quale avevo scritto annunciandogli il nostro programma, mi informa che una spedizione austriaca, non avendo ottenuto il permesso di recarsi pare in Himalaya, è giunta improvvisamente in Perù e si è diretta alla Est del Nevado Yerupaya, proprio l’obiettivo scelto da noi. D’altra parte non possiamo nemmeno optare per la parete Nord-Est, perche già scalata dagli americani l’anno precedente, come avevo appreso da una rivista francese.

E’ un brutto momento, ma subito, come è nel mio carattere, reagisco e all’iniziale scon­forto sostituisco la ricerca immediata di un altro obiettivo altrettanto prestigioso: mi consulto col professor Morales e decido con i miei compagni per la Ovest dell’Jirishanca di m. 6126, una delle montagne più belle della Cordillera Huayhuash, ribattezzata il «Cervino delle Ande». E’ una piramide slanciatissima che spicca per l’imponenza e maestosità da qualsiasi parte la si guardi. Alla storia di questa montagna è legato il nome del compianto amico e grande alpinista Toni Egger che, dopo giorni di lotta, raggiunse la vetta nel 1957 con la vittoriosa scalata della parete Est. Ma nessuno ha mai tentato la parete Ovest, nostra meta, tanto che viene ormai reputata inaccessibile e inviolabile.

Per avvicinarci all’attacco di questa parete, che è tutta un impressionante lungo scivolo di ghiaccio luccicante, dovremo superare una zona non ancora cartografata, un ghiacciaio la cui superficie non è mai stata calpestata da piede umano: anche la spedizione Klier nel 1954 l’aveva considerato inaccessibile.

Finalmente il giorno 12 entriamo in possesso del tanto atteso materiale che Celso Salvetti ci fa trasportare sino a Chiquian con un suo autocarro, egli stesso viene ad accompagnarci, mettendoci a disposizione la sua grossa vettura. Partiamo la sera stessa e viaggiamo tutta la notte percorrendo più di 500 chilometri della Carrera Pan-Americana, una strada piena di buche in terra battuta, che si solleva e va dappertutto. Poiché non ci stiamo tutti nella cabina dell’autocarro e della jeep, noleggiamo anche una macchina.

Il mattino seguente arriviamo al passo Conococia a quota 4200, dove ha inizio un’immensa pianura con laghi e paludi. Ci fermiamo ed attendiamo il passaggio delle oche canadesi; ci scambiamo i fucili di Celso e Lanzetta e abbattiamo alcuni capi che gusteremo poi a Chiquian.

Dopo aver attraversato tutta la piana, ecco il maestoso Yerupayà con alla sua sinistra il Nevado Jirishanca. Dopo circa una trentina di chilometri, sempre in discesa, entriamo in Chiquian a quota 3553. Contrariamente a quanto immaginavo, è un grosso paese di circa 18mila abitanti ed è l’ultimo centro prima della Cordillera. Faccio conoscenza con Aldoves, capo-carovana e buon conoscitore della zona, e con i quattro portatori procurati dal dottor Morales: mi sembrano bravi ragazzi e hanno il compito di aiutarci a portare i grossi carichi fino all’attacco.

L'itinerario della spedizione sul Gruppo del Yerupaya
L’itinerario della spedizione sul Gruppo del Yerupaya
Burritos

La partenza avviene al mattino del giorno 15: per il trasporto del materiale fino al campo base utilizziamo quaranta burros, gli asinelli locali. Noi montiamo cavalli da sella. Il percorso è regolare e si snoda attraverso una valle, dapprima molto stretta, su di un impervio sentiero scavato nella roccia. Dopo una ventina di chilometri, ci accampiamo perché ormai è sera e, contrariamente a quanto si afferma che nelle Ande si è sempre all’asciutto, piove a dirotto. Il programma è di raggiungere il campo base con due sole tappe, ma al mattino perdiamo alquanto tempo a racimolare tutti i piccoli somarelli e partiamo abbastanza tardi. Dopo circa due ore ci troviamo in una grande pianura semi paludosa attraversata da numerosi torrentelli e popolata da molti uccelli acquatici.

Saliamo poi un ripido pendio, ma gli uomini vogliono fermarsi perché le bestie sono stanche: il loro capo insiste per continuare ma, viste le condizioni degli animali, reputo impossibile raggiungere il passo e scendere dall’altra parte, anche perché è già tardi. Qui le ore della notte equivalgono a quelle del giorno. Noi pure siamo un poco spossati e risentiamo delle fatiche e dell’altitudine. Decido perciò di fermarci e attendarci su un piccolo ripiano.

Il giorno dopo riprendiamo la marcia, dopo la solita laboriosa ricerca degli arri eros per recuperare i burros, che durante la notte si sono disseminati fra le rampe della montagna. Io e Casimiro procediamo a piedi e raggiungiamo per primi il passo a quota 4700, dove ci si presenta lo scenario imponente e suggestivo del gruppo dell’Huayhuash, splendente al sole. Dopo una lunga discesa, raggiungiamo una magnifica pianura e in prossimità di due laghi, in un posto idilliaco e riparato, decidiamo di piazzare il nostro campo base. Lanzetta prende la canna da pesca e procura la cena per tutti noi con numerose e saporite trote.

I miei occhi si perdono nella visione immensa di queste cime: da sinistra il Rondoy massiccio e imponente; poi l’Jirishanca che mostra la sua duplice vetta quasi ad accrescere l’ardita grandiosità; la cima El Toro, dove le rocce non coperte dal ghiaccio hanno un pallido color rosa che mi ricorda il paesaggio dolomitico e infine lo Yerupayà dalla possente mole dominante. Ognuna di queste montagne ha una sua particolare fisionomia. Respiro a pieni polmoni l’aria frizzante, tersa e rarefatta dei 4000 metri delle Ande.

Diario Riccardo Cassin
Pesca fortunata. Foto dalla Fondazione Riccardo Cassin
Il “rognone”

Sono 12 giorni che abbiamo lasciato l’Italia: non c’è tempo da perdere e decido di partire il mattino successivo con Alippi ed i quattro portatori verso la nostra montagna. Camminiamo per 4 ore sul terreno ripidissimo e faticoso, finché trovo il posto adatto per piazzare il campo intermedio, che dovrà servire da deposito e appoggio. Dopo aver piazzato una tenda, lasciamo tutto il materiale e viveri che abbiamo con noi e rientriamo al campo base, dove sistemo i conti con Aldoves per il trasporto e liquido gli arri eros con i cavalli e somarelli. Ora siamo soli, con i 4 portatori e Arzales che è anche il capo degli arri eros e avrà inoltre il compito di tenere i collegamenti con Chiquian.

Nei giorni successivi, a turno, andiamo al campo intermedio per portarvi viveri e materiali. Il 19 è la volta di Casimiro, Natale, Giuseppe e Annibale, che trasportano ancora materiale e un’altra tenda Pamir: i primi due si fermano su, mentre Lanfranconi e Zucchi ridiscendono. Il mattino seguente parto con Gigi e i 4 portatori: ci fermiamo al campo intermedio con Morales. Quando i portatori sono già scesi, Casimiro e Natale rientrano dalla ricognizione fatta sul ghiacciaio per raggiungere il colle El Toro, dove hanno lasciato tutto quanto avevano portato con loro. Natale poi fa ritorno al campo-base.

Il 21 mattino ci muoviamo in marcia di avvicinamento per portarci al campo d’attacco, ma, per arrivarvi, dobbiamo superare il colle EI Toro di 5300 metri, ritenuto inaccessibile. Il dottor Morales Arnao mi aveva detto che nel 1957 un aereo, con ventisette passeggeri a bordo, era andato a infilarsi in un fianco del colle, tra l’Jirishanca e la cima El Toro, e che la squadra di soccorso, dopo quattro giorni di vani tentativi, aveva dovuto desistere, non avendo trovato alcun passaggio per raggiungere il posto del disastro.

Gigi e Casimiro decidono di esplorare il «rognone» roccioso che sulla sinistra divide i due ghiacciai, quello di El Toro da quello dell’Jirishanca, per vedere se il passaggio è più breve. Liati si ferma al campo per provare la radio.

Io e Morales andiamo più tardi verso il colle sulle tracce dei due, ma, arrivati al punto do­ve loro hanno piegato a sinistra sotto la seraccata credendo di trovare un passaggio, io decido di andare sino alla base del Piccolo Yerupay, perché intuisco un passaggio migliore. Quando però arriviamo all’altezza del posto dove Casimiro e Airoldi hanno lasciato il materiale, constato che dal punto dove siamo noi non lo si potrebbe più recuperare. Ci divide un estesissimo pendio di ghiaccio, tagliato da un numero infinito di crepacci che corrono in ogni direzione, impossibile da superare. Pur essendo stato in Karakorum e in Alaska, ne rimango impressionato: mi sembra di muovermi in un fiabesco agghiacciante regno nevoso, pieno di insidie e trabocchetti.

A metà di un lunghissimo crepaccio scopro un esile ponte di neve: l’osservo bene, mi sem­bra rischiabile. Faccio abbassare di qualche metro Morales per farmi sicurezza. Salgo sul ponte e vedo che resiste magnificamente. Il mio compagno non è molto persuaso, ma, visto che io sono ben ancorato, si arrischia e passa. Sono felice di aver espugnato il primo duro ostacolo: passeremo tutti più volte durante il nostro lavoro per attrezzare il campo d’attacco!

Il pendio diventa sempre più ripido e man mano che mi alzo la neve si fa più soffice e questo, a oltre 5000 metri e con poca acclimatazione, è assai penoso. Procediamo sempre schivando enormi crepacci, mai visti né immaginati nella mia vita d’alpinista; ci alterniamo per battere la pista quando la neve è tanto alta che si tocca con le ginocchia. Finalmente raggiungiamo il Colle El Toro e da questo punto intravvedo la nostra bellissima cima dal versante Sud-Ovest, che si presenta imponente e superba nella sua elegante forma.

A mezzogiorno tento il collegamento-radio concordato, ma non riesco a effettuarlo. Scen­do allora con Morales verso l’Jirishanca, raggiungendo un vasto pianoro: siamo a non più di 200 metri in linea d’aria dall’attacco della parete. Proseguo in discesa lungo un crepaccio sulla nostra destra, dove penso ci sia la possibilità di passare. Trovato il passaggio, lasciamo tutto quanto abbiamo con noi e rientriamo alquanto stanchi al campo intermedio, dove sono appena giunti dal campo-base Annibale e Giuseppe, mentre Casimiro e il dottor Liati scendono.

Tra campo e campo

Il giorno seguente Zucchi e Lafranconi partono con l’intenzione di recuperare il materiale; anche Ferrari, Airoldi e Alippi con i due portatori di Chiquian, che sono giunti dal cam­po-base, si dirigono a quello d’attacco.

Faccio scendere al campo-base, per riposo, Morales che risente delle fatiche sostenute e ha gli occhi tutti gonfi per non aver voluto tenere gli occhiali. Io rimango al campo intermedio a sistemare un poco tutto e a scrivere.

Mentre Natale giunge dal campo-base, Gigi rientra con i due portatori e mi riferisce che ha piantato la tenda, che la parete è veramente imponente e che ha incontrato Annibale e Giuseppe al Colle: hanno recuperato tutto il materiale, lasciandolo però lungo il percorso perché già carichi.

Per alcuni giorni le nostre fatiche consistono in lunghe marce dal campo-base e da quello intermedio per portare rifornimenti al campo d’attacco. Oltre ai pesi non indifferenti, che dobbiamo metterci sulle spalle, le difficoltà vanno considerate in rapporto all’altezza, cioè a quota superiore ai 5000 metri.

Il mattino del 23, dopo aver preparato tutto l’occorrente da portare al campo d’attacco e at­teso i portatori dal campo-base, parto con loro e Natale che sale scarico, perché dovrà recuperare del materiale lasciato lungo il percorso da Annibale e Giuseppe. Mi riprometto di girare un poco di film. Al campo d’attacco trovo Annibale e Giuseppe e dai loro volti intuisco che non stanno bene: l’alta quota troppo in fretta raggiunta provoca un po’ a tutti disturbi, nausee ed emicranie.

In serata, mentre gli altri si fermano al campo intermedio, con Zucchi scendo al campo-base per inventariare quanto abbiamo e per inviare Arzales a Chiquian con la nota di quanto deve prelevare. Così acquisto da lui anche un agnello che arricchirà la nostra cucina di un poco di carne fresca. Lanzetta approfitta della mia venuta per salire con Annibale e con i due portatori di Vuaras al campo intermedio, dove questi ultimi daranno il cambio a quelli di Chiquian. Al suo rientro mi riferisce che Gigi, Casimiro e Liati sono partiti per il campo d’attacco e da un biglietto di Natale so che anche gli altri seguiranno lo stesso programma.

Nella mattinata del 26, dopo aver ultimato e sistemato tutto, raggiungo il campo interme­dio e anche qui trovo diverse cose da riorganizzare nelle tende. Verso le 11.30 arrivano due portatori dal campo d’attacco e mi dicono che Annibale, Giu­seppe e Natale sono in parete. Debbo lasciare le disposizioni per Lanzetta e inventariare la merce rimasta, poi con i por­tatori di Chiquian, giunti dal campo-base il 27 mattina, salgo al campo d’attacco. Mi è doveroso ricordare questi uomini, davvero eccellenti e tenaci, che coprono in una sola tappa il percorso dal campo-base al campo d’attacco con carichi pesanti.

Nel salire, nei punti più interessanti, mi fermo a filmare. É una giornata molto calda e il sole alle volte ci scotta impietosamente le membra. Casimiro e Gigi sono in parete. Li vedo a circa 300 metri che procedono ancora. Verso le 17 rientrano: il lavoro è estenuante, dicono, il ghiaccio duro come il marmo.

Mi riferiscono come appare la parete sopra la cresta, del resto ben visibile anche dal nostro campo-base: si presenta di estrema difficoltà e con una pendenza di circa 65°-70°; nei punti completamente verticali è impressionante con quegli enormi strapiombi di ghiaccio che la sovrastano. Abbiamo scelto il più impegnativo problema della Cordillera di Huayhuash: salire questa invitta parete Ovest per la via esteticamente più bella e alpinisticamente più completa. L’itinerario corre sotto enormi seraccate in bilico e per salire bisogna incidere i gradini nel ghiaccio vivo, a grandi colpi di piccozza.

Il 28 giugno, col tempo che continua a favorirci nel migliore dei modi, ci muoviamo in quattro: Zucchi e Lafranconi per proseguire e attrezzare la via oltre il punto toccato da Casimiro e Gigi il giorno precedente, Airoldi e io per portare materiale oltre che scattare foto e girare il film. Arrivati però ad una lunghezza di corda dal punto raggiunto da Alippi e Ferrari, io e Airoldi siamo costretti a discendere poiché ci sta piovendo addosso una grandine di ghiaccio, provocata dai due che in testa stanno gradinando. Inoltre ho terminato la pellicola e in questo momento l’aiuto che possiamo dare è relativo.

Al campo d’attacco Alippi mi chiede un giudizio sulla salita e non posso che confermare che è veramente interessante e difficile.

Alle 18.30, quando ormai è buio, rientrano anche Giuseppe e Annibale: sono arrivati a circa 50 metri dalla cresta, hanno aggirato un grosso seracco che è al di sopra delle nostre tende e domina la parete dove noi saliamo. Per il momento non sembra pericoloso, ma comunque non è quello il suo posto!

Tormenta

Alle prime ore dell’alba del 29 Gigi e Casimiro partono, nonostante il tempo non prometta nulla di buono. Infatti, poche ore dopo, il cielo è tutto coperto e l’Jirishanca si nasconde dietro una cortina di nubi.

Verso le 9.30 Ferrari e Alippi rientrano: la loro decisione è motivata più che dal tempo che volge al brutto, da un’indisposizione che ha colpito in particolare Gigi. Per fortuna sono rientrati perché il peggioramento del tempo si fa sempre più evidente, tanto che poi nevica per l’intera giornata. Cerco di infondere sicurezza ai compagni, ma in cuor mio ho il timore che il diavolo ci voglia mettere lo zampino. Anche i portatori giunti dopo le 10 continuano a ripetere: malo tiempo, ma dicono che durerà solo un giorno.

Spero sia vero poiché la vita ai campi alti in queste condizioni oltre tutto è noiosa, costretti sempre a stare rinchiusi nelle tende con spazio limitato e con la sola alternativa di dormire o scrivere. Purtroppo per quattro giorni saremo forzatamente bloccati: siamo investiti da un tempo eccezionalmente infernale. Qualcosa di fiabesco, di orrido e di malefico, che ci fa consapevoli di essere impotenti in preda ai capricci della natura. E pensare che ci avevano detto che sulle Ande in questo periodo non c’è mai brutto tempo!

Siccome le nostre scorte-viveri si vanno assottigliando, intanto che il tempo non accenna a migliorare, decido di scendere a controllare il campo intermedio e il campo-base, anche perché i portatori arrivano sempre col materiale che già abbiamo e non con quello che realmente ci occorre. Vengono con me anche Lafranconi e Zucchi. La pista, naturalmente, è scomparsa, perciò prendiamo con noi anche un mazzo di bandierine per segnare meglio la via. Incrociamo nel tratto pianeggiante i due portatori Morales e Flores, che si trovano così avvantaggiati nel salire dalla nostra pista appena battuta.

Al campo intermedio controllo la consistenza di quanto è ancora in deposito e con gradita sorpresa vedo che c’è di tutto. Ci rifocilliamo e scendiamo subito al campo-base, ma vi arriviamo tutti bagnati perché piove a dirotto. Dopo una corroborante tazza di tè preparataci da Mimmo, mentre Giuseppe, Annibale e Lanzetta vanno a pescare, mi reco con i due portatori Sergio e Ardoves a cacciare. Il nostro carniere si arricchisce di quattro biscacce, che assomigliano ai conigli ma con la coda molto più lunga e che raggiungono, come massimo, il peso di due chilogrammi. Sono preziose perché garantiscono un poco di carne fresca nella nostra alimentazione.

Il mattino seguente, visto che il tempo ci costringe a soprassedere all’attacco della parete, decido di esplorare con Lafranconi un altro versante, sempre in cerca di vanados; dopo ore ed ore di cammino, verso le 15, senza aver fortuna, siamo nuovamente al campo, dove troviamo Gigi che, stanco del forzato ozio e del brutto tempo, è sceso dal campo d’attacco.

Prima di sera ci dedichiamo tutti alla pesca, ma anche le trote fanno i capricci come il tempo; contrariamente al solito non abboccano e ne prendiamo solo quattro. Mimmo da quando è qui invece ne ha pescate moltissime e di veramente grosse.

Dopo aver scritto, prima di coricarmi, verso le 11 esco a guardare il cielo che finalmente vedo tutto sereno, così il giorno seguente potremo partire per il campo d’attacco, mentre Ardoves andrà a Chiquian con la posta.

Il programma è di partire tutti e, in una sola tappa, raggiungere il campo d’attacco: i portatori procedono con noi quasi totalmente scarichi sino al campo intermedio, dove prenderanno del materiale. Anche noi lassù ci carichiamo di qualcosa in aggiunta al nostro equipaggiamento e teniamo un passo alquanto so­stenuto. Ora però siamo abituati all’altezza e si fa molto meno fatica dei primi giorni.

Giunti al campo d’attacco, apprendo che Ferrari e Liati sono in parete per ripulire le tracce semi-distrutte. Sono tranquillo poiché penso che i due procedano per un poco e poi ritornino, anche perché il tempo peggiora nuovamente. Infatti verso le 17.30, con un brusco mutamento, riprende a nevicare. La neve, sotto forma di palline gelate, cade per oltre due ore. Sono preoccupato, e ho il timore che i due non abbiano raggiunto la tendina lasciata da Zucchi e Lafranconi e fuori, in tali condizioni, è ben difficile cavarsela. Cerco di non drammatizzare, ma non riesco a nascondere la mia preoccupazione. Il brutto tempo ci rende tutti tristi e l’ansia per la sorte dei compagni mi impedisce di stare tranquillo: è una lunga notte, sofferta ed insonne.

Nelle prime ore del mattino il cielo si rasserena, diviene terso e meraviglioso, ma il freddo è intensissimo. All’alba scorgiamo, all’inizio della cresta, la tenda che ha ricoverato Ferrari e Liati, e ho un sospiro di sollievo! L’equipaggiamento e l’attrezzatura si sono ancora una volta dimostrati efficienti e perfettamente idonei, anche in caso di violenta tempesta, consentendo ai due amici di uscire indenni da quel frangente.

Il tempo si è calmato: decido allora di far partire Zucchi e Lafranconi che salgono lentamente perché molto carichi e procedono sulla parete che è tutta impastata di neve fresca. Seguo continuamente i loro movimenti, mentre nella tendina Nepal sulla cresta non avverto alcun movimento sino a mezzogiorno: li abbiamo solo sentiti chiamare al mattino. Però, subito nel pomeriggio, vedo chiaramente Casimiro e Sandro muoversi e incominciare a salire. Continuano sino verso le 17 e giungono a due tiri di corda dalla fine della cresta.

Giuseppe e Annibale dapprima raggiungono il punto dove erano gli altri, poi salgono anche loro fino alla crepacciata, nella grotta di ghiaccio, dove nel frattempo si sono portati Ferrari e Liati. Intanto, con Alippi e Airoldi, preparo i sacchi per la partenza del mattino successivo, in modo da essere pronti e attaccare prestissimo. Ci alziamo che è ancora notte, beviamo un poco di latte e alle sei siamo già all’attacco.

Dal diario: Riccardo Cassin con Sandro Liati e Gigi Alippi.
Riccardo Cassin con Sandro Liati e Gigi Alippi. Foto dalla Fondazione Riccardo Cassin
In vetta

La cordata procede con Gigi in testa, seguo io e poi Natale. Siamo assai carichi di viveri e materiali; superiamo Io strapiombo e proseguiamo per tutta la giornata. Diverse volte interrompo l’azione per filmare sia in alto che in basso, per riprendere a tur­no ora l’uno ora l’altro dei miei compagni e questo lavoro non solo fa perder tempo, ma comporta una fatica davvero snervante.

Verso le 15 siamo sulla cresta: Casimiro e Lafranconi ci vengono incontro, ci aiutano a portare i sacchi ed è un vero sollievo. Percorriamo tutta la cresta fino alla crepaccia. Passiamo la notte tutti riuniti in una grande inverosimile grotta dantesca, caratterizzata da stalattiti di ghiaccio e da artistiche architetture naturali. Ho l’impressione di trovarmi sot­to la cupola di una chiesa: indescrivibile la suggestiva bellezza del posto! Purtroppo siamo in sette a dividerci le due tendine Nepal, cosicché, di tanto in tanto, qual­cuno preferisce dormire fuori.

All’alba partono dapprima Ferrari e Lafranconi: risalgono i cento metri gradinati il giorno prima fino a raggiungere la roccia, visibile anche dal basso, e piantano diversi chiodi di assicurazione. Siamo tutti tesi nello sforzo per superare l’ultimo tratto che ci separa dalla vetta.

Dopo un ripido pendio di ghiaccio, coperto da neve instabile che porta a una cresta, pie­ghiamo a destra raggiungendo un canalino, anch’esso con neve inconsistente.

Passata una piccola sella, ora dobbiamo vincere la parte superiore del fungo che forma la cima dell’Jirishanca, affrontando un ghiaccio infido, spugnoso e soffiato in superficie. La pic­cozza affonda tutta, il piede cede e non consente lo slancio per il successivo movimento.

La fragile calotta di ghiaccio della vetta sembra voglia difendere l’inviolabilità di questo Nevado di 6126 metri di altezza. A un tratto non scorgo più Ferrari e Lafranconi che si sono portati dall’altro lato per cercare un passaggio.

Vivo attimi di trepidazione! Di momenti brutti e belli in montagna ne ho passati molti… la sofferenza, la gioia, le emozioni si susseguono. Oltre al fisico temprato occorre tanta forza di volontà e orgoglio; sono requisiti che non fanno certo difetto nemmeno ai miei valorosi compagni.

Infatti Ferrari, assicurato da Lafranconi, con strenua volontà non desiste e riprova, costel­lando il passaggio di picchetti di legno (ricavati da manici di piccozza con puntale) e riesce a superare l’ultimo tratto sino a innalzarsi sulla cima. Sono le 14.30 e, subito dopo, tutti raggiungiamo la vetta.

Il ghiaccio di questa calotta è fragile e non si solidifica mai a causa del sole, del vento e della neve che lo frustano in continuazione: quel ghiaccio è il nostro punto di aggancio con la Terra!

Sono emozionato e felice. È un momento indescrivibile, come tante volte mi è capitato di provare, ma ogni vittoria in montagna ha le sue sfumature sottili e profonde.

A sessant’anni compiuti, con questi cari ragazzi, guardo il mondo da questa cima. La mia mente è come drogata da un silenzio infinito. L’abbraccio che ci scambiamo è quasi muto: ognuno di noi vive l’unione completa con la montagna domata.

Giù nella grotta daremo sfogo alla nostra gioia. Scatto qualche foto dopo che abbiamo levato dai sacchi le bandierine di Lecco, dei Ragni e di altri, simbolo e ricordo di partecipazione amichevole e affettuosa, che lasciamo lassù a testimonianza imperitura. Non abbiamo molto tempo per sostare: dobbiamo scendere al più presto per non incorrere nel pericolo di passare la notte in piena parete, dove non esiste alcuna possibilità di bivacco. Gigi e Liati hanno iniziato la discesa e sono già abbastanza bassi; seguono Casimiro e Giuseppe. Io, Annibale e Natale procediamo più lentamente, perché siamo in tre e inoltre dobbiamo recuperare le corde.

In vetta all'Jirishanca. Foto dalla Fondazione Riccardo Cassin. Il racconto dal diario
In vetta. Foto dalla Fondazione Riccardo Cassin
Il sapore della vittoria

Arriviamo alla provvidenziale crepaccia quando è già notte, aiutati dalla luce delle torce che gli amici hanno acceso. Il bivacco ha il sapore esaltante della vittoria conseguita. Divido con gli altri due la piccola Nepal, eppure mi sembra più comoda del giorno precedente; il ghiaccio, sul fondo del telo, pare quasi morbido e meno freddo, tanto mi sento disteso di nervi dopo giorni di ansie e di speranze, di momenti così intensamente vissuti e sofferti.

Al mattino scendiamo verso la base della parete. I portatori ci vengono incontro, ci abbracciano con viva commozione e ci aiutano a trasportare i pesanti sacchi sino al campo d’attacco dove il caro Lanzetta, salito dal campo-base per salutarci e complimentarsi, ci sta a­spettando. Decidiamo per la discesa immediata verso il campo-base, anche se il percorso è lungo. Dico ai portatori di caricarsi di quanto ci può maggiormente necessitare, lasciando il recupero del rimanente materiale per i giorni seguenti. Scatto ancora qualche foto e giro alcune riprese per il film.

Verso le 17.30 siamo al campo intermedio: dapprima c’è chi accenna a volersi fermare, ma poi alla fine tutti optano per il campo-base, più comodo e spazioso, che raggiungiamo quando è già notte. Un’abbondante e tanto desiderata pastasciutta con il vino bianco, offertoci da Celso Salvetti e conservato per l’occasione, è il primo tangibile inizio dei nostri festeggiamenti. Ci ritiriamo piuttosto euforici, perché il vino e la stanchezza, uniti, fanno la loro parte.

Nei giorni seguenti, mentre attendiamo Ardoves che torni con i burros, si smobilitano i vari campi e ci dedichiamo alla pesca e alla caccia. Depositiamo materiali e viveri nello stesso locale usato al nostro arrivo e nella giornata del 17 siamo a Chiquian.

La straordinaria e meravigliosa Ovest dell’Jirishanca, con le forti difficoltà che la nuova via ci ha riservato, mi ha pienamente soddisfatto grazie anche al valore dei miei giovani com­pagni: ancora una volta l’uomo, al limite delle sue possibilità, ha vinto lottando contro il ghiac­cio, la bufera e il gelo.

Dal diario di Cassin: in tenda.
In tenda. Foto dalla Fondazione Riccardo Cassin

FONTE: Riccardo Cassin, Cinquant’anni di alpinismo, Dall’Oglio editore, 1977

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