Un lecchese sul Grappa: la lettera di Luigi Mira

Luigi Mira nasce a Lecco il 22 aprile 1897. Il 12 ottobre 1916 viene chiamato alle armi e arruolato nel 26° reggimento artiglieria da campagna. Frequenta il corso Allievi Ufficiali di complemento presso l’Accademia militare di Torino e la Scuola Militare di Modena dal 5 maggio al 25 luglio 1917. Il 26 agosto dello stesso anno è assegnato al battaglione sciatori “Monte Pasubio” operante sulla Bainsizza; il 12 ottobre è trasferito al 7° reggimento alpino battaglione “Monte Antelao” e partecipa a operazioni militari a Fontana Negra, Sasso di Stria, Passo Buole. Promosso sottotenente il 21 giugno 1918, nel mese di ottobre è effettivo nella 151a compagnia del “Monte Antelao” impegnata nei combattimenti sui Solaroli. Promosso tenente, presta servizio fino alla smobilitazione nei battaglioni “Monte Baldo” e “Verona” della 52° Divisione alpina.

La lettera che pubblichiamo di seguito è stata scritta da Luigi Mira nel 1918 e racconta la tragica salita ai Solaroli. La 151a compagnia di cui faceva parte Mira era comandata dal capitano Alliaud, morto alla fine del secondo giorni di battaglia sul Monte Grappa. Viene citato anche il comandante del Battaglione, il capitano Reverberi, diventato poi generale al comando della Divisione Tridentina nella Campagna di Russia della Seconda guerra mondiale, quello che il 26 gennaio 1943, a Nikolaiewka, diede l’ordine “Tridentina avanti!”.

Fiera di Primiero, 6.11.1918

Carissimi,

sono vivo, vivissimo e senza una graffiatura. Sono stato fortunato, ma purtroppo molti miei colleghi e tanti miei soldati sono morti. Anche il mio capitano è morto, proprio alla fine del combattimento, quando ormai si aveva ragione di sperare che tutto fosse finito: una granata gli è scoppiata proprio sotto i piedi. Tentare di raccontarvi tutto quello che mi è successo da quando sono partito da casa alla fine della licenza non è una cosa da poco, ma proverò. 

Sapete già che a Verona ho trovato Ettore; poi io ho preso il treno e sono andato a Vicenza da dove avrei dovuto proseguire per Schio e di lì, con qualche mezzo, raggiungere il Battaglione, che io avevo lasciato in Vallarsa. Ma alla Stazione di Vicenza trovo alcuni soldati del Battaglione che, usciti dall’Ospedale e presentatisi al Comando di Tappa, erano stati indirizzati a Fontaniva, vicino a Cittadella. Io però che da Lecco avevo spedito la mia cassetta per bagaglio a Schio, ho dovuto andare a Schio per ritirarla. Anch’io, dal Comando di Tappa di Schio, sono stato avviato a Fontaniva e ci sono andato. Ma là nessuno aveva visto il mio battaglione. Allora sono tornato a Schio e siccome il Comando di Tappa, al quale mi sono ripresentato, continuava ad indirizzare a Fontaniva, sono andato al Comando di Corpo d’Armata. Finalmente qui ho saputo che il mio battaglione era a Sandrigo. Ma, per andare a Sandrigo, dall’ultima stazione alla quale si poteva arrivare col treno, che era poi la Stazione di Villa Verla, c’erano ancora 12 Km. E non vi dico che fatica ho fatto ad arrivarci con la mia cassetta. Tanto più che a furia di girare di qua e di là, ero rimasto con 10 lire sole in tasca, avendo comperato a Milano un bocchino per il mio povero capitano, che costava 28 lire, ed un bastone per un tenente, che costava 18 lire. E poi, come vi ho detto, girando da Milano a Verona, da Verona a Vicenza, da Vicenza a Schio, da Schio a Fontaniva, da Fontaniva di nuovo a Schio… Ho perfino dovuto noleggiare, non trovando altri mezzi, da Villa Verla a Sandrigo, una carrettina con un asinello, grandi come un giocattolo, almeno per poter portare la mia cassetta. E finalmente a Sandrigo ho trovato la mia compagnia. Potete immaginare come ero stanco e come ero stufo di girare. Invece alla sera, verso le 7 dello stesso giorno, c’è l’ordine di partire. Ci si mette in marcia, si fanno 5 o 6 Km poi viene un altro ordine: dietro front e si ritorna a Sandrigo. Come si può ci si accomoda per dormire: i soldati sotto i portici delle case e gli Ufficiali dove possono, perché ormai è la una dopo mezzanotte. Io riesco a trovare una branda in una casa, ma non sono ancora addormentato quando, verso le 4 del mattino, mi vengono a chiamare un’altra volta. C’è di nuovo adunata del Battaglione che verso le 6 del mattino parte in camion. Io trovo un posto vicino allo chauffeur, mi metto la mantellina sulla testa e, come posso, cerco di dormire. I camion ci sbarcano a Paderno, un paese alle falde del massiccio del Grappa, paese ancora abitato. Ma non ci si ferma che un paio di ore. Si riprende la marcia a piedi, i soldati carichi, oltre che dello zaino, di tutto il materiale di cucina e di magazzino e si arriva in un paesetto disabitato che non so più come si chiami. Anche qui ci si accomoda come si può, di mangiare non si parla, essendo arrivati di notte. Immaginatevi come si era stanchi: avendo, per di più, perso la strada si era dovuto camminare attraverso i boschi, su e giù per i valloni, attraversando letti di torrenti fortunatamente con poca acqua. Ed i soldati, come vi ho detto, erano carichi delle casse di cottura, delle marmitte, di sacchi coi viveri, ecc. ecc. Alle 4 di mattina, sveglia! C’è un traino di cannoni da 149 da fare. Il traino, per la mia Compagnia, dura fin verso le due dopo mezzogiorno. Al ritorno, per fortuna, troviamo il rancio e non importa se io sono rauco a furia di gridare: “Pronti? Forza! forza!..” agli uomini che sono alle funi.

Il giorno dopo, alla mattina alle 6, altro traino che dura, anche questo fin le 2 del dopo pranzo. Alla sera, partenza per il Grappa. Partiti alle 7 della sera, non si arriva che alle 3 di notte, dopo una marcia faticosissima non tanto per le difficoltà del cammino, ma perché le strade erano tutte ingombre di camion, di colonne di muli, di carri. Si dorme, naturalmente sul lato della strada. Alle 4 del mattino, cioè neanche dopo un’ora di sonno, del 24 ottobre, incomincia il bombardamento nostro, intensissimo. Di dormire, dunque, non se ne parla più. Sulla strada si rimane fin verso le 3 del pomeriggio. Quando viene l’ordine di partire, incomincia a piovere. Ci incamminiamo, per uno, sotto la pioggia, sulla montagna, verso il combattimento. Incominciano le prime granate e i primi morti. Un tenente, colpito tra i primi, il tenente Beghini della 96a Compagnia, colpito da una grossa scheggia, muore gridando “Viva l’Italia!”. Un sottotenente ha una gamba spezzata. Io fumo una sigaretta dopo l’ altra. Passiamo la notte dietro un costone, Col dell’Orso, sotto l’acqua e sotto un tiro intenso di proiettili a doppio effetto che però riescono a ferire solamente pochi uomini, dato il riparo abbastanza buono offerto dal costone del monte.

Verso l’alba del giorno 25 abbandoniamo il costone, scendiamo nella valle e ci ripariamo in una specie di fossato. Appena poco al di sopra di noi, due pezzi da montagna tirano un colpo dopo l’altro e sembrano due cani rabbiosi che abbaiano. Si raccomanda ai soldati l’immobilità assoluta. Ma uno comincia ad andare al cesso, un altro va per prendere l’acqua: fatto sta che siamo scoperti. L’artiglieria austriaca comincia a tirare con grossi calibri sul valloncello dove tutto il battaglione era ammassato. Un colpo un po’ lungo, un colpo un po’ corto, il tiro si fa sempre più preciso finché le granate scoppiano in pieno in mezzo a noi. E’la visione più brutta che io ho avuto di tutto il combattimento. Fitti come eravamo in quella piega della montagna, quei due o tre colpi in pieno hanno fatto strage.

Mamma, mamma mia, se tu avessi visto! C’erano alcuni soldati della mia compagnia con le gambe stroncate al di sopra del ginocchio. Ho ancora nelle orecchie il grido di un povero ragazzone biondo che chiamava la mamma sua, guardando con gli occhi già morenti le sue povere gambe o meglio, i suoi mozziconi sanguinolenti. Un altro, cinque passi davanti a me e’ buttato per aria da una cannonata. La sezione “pistola mitragliatrice” è quella più colpita e il Sergente Maggiore Marinello che la comanda, corre in su e in giù, come un matto, con le mani sulla faccia, gridando: “Oh! la mia Sezione, oh! la mia Sezione”.  Sono rimasto calmo; ve lo dico contento di poterlo dire. E a conservare la calma mi ha aiutato il puntiglio che avevo di far vedere al Sergente Bianchi che non avevo paura, perché lui, arrivato da poco alla compagnia, aveva cercato di sfottermi e si era fatto sentir dire, dietro alle mie spalle: “Li vedaremo, ciò, sti ofizialeti, quando che ‘l sarà el momento!”. Per adesso sono io che guarda cosa fa lui. Mentre il cappellano, subito accorso, gira in mezzo a noi, impartendo l’assoluzione ai morti e ai moribondi, ho ordinato i soldati, cercando di non far fare confusione. Intanto ci si muove da quel tremendo fossato, ed era ora, e ci arrampichiamo sul monte, sempre sotto il tiro dei cannoni, il capitano in testa e io subito dietro lui gridando: “Avanti la 151”. A un certo punto incomincia anche una mitragliatrice che ci prende di fianco; tutt’intorno ci sono già dei morti. Il capitano evita quel passaggio obbligato correndo a zigzag su per la montagna ed io dietro di lui, non lo mollo di un passo; penso che è più pratico di me e che mi conviene stargli vicino. E’ il momento in cui butto via la mantellina; ero senza fiato e si capisce: correre sui monti non è una cosa piacevole, ma, d’altra parte, o farsi bucare dalla mitraglia o correre. Poi lui si volta e mi dice: “Mira, dov’è la Compagnia?” Mi volto anch’io e vedo che solo pochi uomini sono riusciti a seguirci, gli altri sono rimasti indietro. Mi dice: “Va a prenderli e mandali in su”. Così devo ripassare per quel punto obbligato che ero così contento di aver superato poco prima senza essere ferito. Mentre ridiscendo, indico ai nostri soldati che incontro la direzione che devono seguire per raggiungere il Capitano. Incontro anche il Tenente Terracini, comandante della Compagnia Mitragliatrici pesanti. Cammina in testa ai suoi soldati con passo cadenzato. Lo avviso che più su incontrerà il punto pericoloso e che deve correre se vuole salvare la ghirba. Mi dice: “I tuoi soldati possono correre, ma i miei hanno le armi e le cassette munizioni sulle spalle”. In coda c’è Vigliani e dico anche a lui di stare attento. Mi risponde qualche cosa in piemontese ma io sono già lontano e non capisco. Non incontro più nessuno della 151. Tiro il fiato e risalgo per raggiungere gli altri. Si arriva in un punto abbastanza riparato e ci si raduna come si può. Qui comincia il vero combattimento, perché finora non è stata che una marcia di avvicinamento. Io sono ancora calmo. Le compagnie si dispongono per il combattimento, cioè con gli uomini distesi. Le cannonate, che non riesco a capire se sono nostre o austriache, non arrivano più su di noi. Battono poco più in alto e fanno precipitare valanghe di sassi che storpiano, feriscono, uccidono. Avanti: sono in testa al mio plotone che è disteso in linea di fronte dietro di me. Davanti a noi ci sono però i soldati di un’altra compagnia. Il monte sul quale avanziamo è il Solarolo. Alla sinistra degli Alpini c’è la Brigata Lombardia, la Brigata di Urio. Al Col dell’Orso, la notte prima, alcuni soldati della Brigata, che avevo riconosciuto dalle mostrine e ai quali avevo domandato di lui, mi avevano detto che era stato ferito. Ma ora so che è morto dalla cartolina vostra del 1° novembre che ho ricevuto stamane.

Per un po’ avanziamo senza che nessuno ci disturbi, ma dopo un centinaio di metri, comincia una mitragliatrice da sinistra. Il monte è liscio senza alcun riparo, non ci sono che i buchi delle granate. Ci si sposta verso destra, cercando di schivare il fuoco della mitragliatrice di sinistra. Ma dal Valderoa, che si credeva nostro e che invece è stato ripreso dagli austriaci, altre mitragliatrici ci battono. Si avanza lo stesso, sempre in ordine. Quelli che dal basso ci seguivano coi cannocchiali, ci hanno poi detto che la nostra avanzata sotto la mitraglia, sembrava una manovra di piazza d’armi ed il battaglione è stato elogiato per questo. Ma le vittime non mancano. Io salto da una buca di granata ad un’altra e con le mani scavo nella terra per approfondire il riparo. In questi momenti ognuno non si preoccupa che della testa: è quella che si cerca di mettere al riparo; alle gambe e al resto non si pensa. Ma il mio Capitano e il Capitano Reverberi, comandante de Battaglione, invece stanno in piedi. Io continuo a gridare: “Avanti 2° Plotone”. Tanto, avanti o indietro, è la stessa cosa e ho premura che questa baraonda sia finita. Saltiamo in una prima trincea e ci si ripara in quella. Ma l’artiglieria austriaca ha il tiro precisato su questa trincea che è piena di soldati. I feriti non possono passare; i morti, perché non ingombrino, si buttano fuori. Ci penseremo dopo. Fortuntamente verso sera si alza una nebbia densa e il tiro dell’artiglieria a poco a poco rallenta poi cessa. Per poter sgomberare i feriti il battaglione ha l’ordine di portarsi nel punto dove ci siamo schierati e siamo partiti per l’assalto. Si scende al punto di partenza e ci ripariamo dietro delle rocce dove passiamo la notte indisturbati, non essendo visti. Ma alla mattina, che deve essere quella del 26, appena spunta l’alba, gli austriaci ci vedono e cominciano il tiro. Sgombriamo in fretta, non senza perdite e ci portiamo un po’ più sotto vicino a un posto di medicazione.

Ci sono, lì intorno, dei mucchi di morti, buttati nel fango o accatastati, come la legna: uno strato per il lungo e uno per il traverso. Ogni tanto, dal posto di medicazione, i portaferiti ne portano fuori qualche altro che aggiungono al mucchio. Dico ad un portaferiti se non hanno qualche coperta da metterci sopra e mi risponde che ce ne vorrebbe così, delle coperte. Un pezzo da trincea degli austriaci ci sfiora con le sue granate che scoppiano appena un po’ più in là. Ma sono proiettili molto piccoli e le schegge non ci raggiungono. Verso le 2 e mezzo del pomeriggio arriva la corvée coi viveri e contemporaneamente abbiamo l’ordine di ritornare all’ attacco. Si distribuisce in fretta la roba che hanno portato: un po’ di carne e un po’ di tabacco. Qualcuno degli uomini tenta di ritirare anche la razione di quelli che non rispondono alla chiamata. Dicono: “Gliela dò io”. Ma io so che quelli sono morti, mi arrabbio e li picchio sulle mani con un bastone che mi è capitato tra le mani. Il capitano mi sgrida e mi dice di non fare il fatalista. Ci schieriamo di nuovo ed avanziamo, come il giorno prima. Bisognava vedere gli austriaci! Ci aspettavano in piedi sull’orlo delle loro trincee, ma in piedi, diritti e ci buttavano le bombe a mano.

Un po’ più a destra vedo degli alpini che saltano dentro le trincee austriache del Valderoa; di lì a un po’ tornano a saltar fuori. Sono quelli del Battaglione Aosta. La notte dal 26 al 27 è stata tremenda. L’artiglieria austriaca aveva un tiro precisissimo. Io non so come non sia stato colpito; sono solamente stato mezzo sepolto sotto un mucchio di terra fatto cadere da un colpo scoppiato lì vicino ed ho avuto una discreta ammaccatura ad una gamba e ho sperato di essere stato ferito. Nella trincea non c’erano ormai più ripari, era tutta franata e bisognava star lì a prendere tutti i colpi. Il mio attendente è stato anche lui ferito leggermente ad una mano. I feriti non potevano nemmeno essere portati fino al posto di medicazione. Per spostarmi dovevo strisciare sulle ginocchia dei soldati accoccolati da una parte e dall’altra della trincea. Ogni tanto qualche colpo capitava proprio in pieno: roba dell’altro mondo. Verso la mattina però il tiro è rallentato ed allora si è cercato di sgomberare un po’ la trincea nella quale abbiamo poi passato tutta la giornata del 27, la notte dal 27 al 28 e parte della mattina del 28. Di giorno gli austriaci tiravano poco; ma di notte, siccome temevano sempre che noi si attaccasse nuovamente, era un continuo sparare di mitragliatrici e cannonate che piovevano. Forse appunto perché tiravano di notte e non vedevo tanto bene l’effetto dei colpi che capitavano in pieno, a me è rimasta vivissima l’impressione dei morti di due giorni prima, in quel fossato, come quella più brutta. Di giorno vedevo che la trincea era piena di morti, ma non mi facevano l’impressione di quelli visti laggiù, che avevo viso morire e che conoscevo uno per uno. Il 28 mattina il mio battaglione ha lasciato il posto al Battaglione Cadore, che fino allora era rimasto di riserva. Il cambio avrebbe dovuto avvenire di notte, ma quando ci muoviamo è ormai giorno e ci si vede benissimo. Però ci vedono anche gli austriaci. Il capitano parte in testa e mi dice che l’adunata è alle cucine, giù, sulla strada. Io devo rimanere finché non ho mandato in giù tutti gli uomini della Compagnia, sparsi lì intorno, un po’ dappertutto. Quando mi pare che ormai non ci sia più nessuno, mi avvio anch’io. Si scende a gruppi, di corsa, inseguiti dalle cannonate degli austriaci. Ed è stato proprio mentre si scendeva, quando si era ormai quasi al sicuro, che è morto il mio xapitano. Una granata gli è scoppiata proprio sotto le gambe ed una scheggia gli ha reciso l’arteria femorale; è morto dissanguato. Aveva 27 anni e mi voleva bene come a un fratello minore.

Siamo tornati su quella strada dove avevamo passato la notte dal 23 al 24; poi, quando tutti furono arrivati, ci siamo messi su un monte lì vicino: Cima Pallone, mi pare, lontani dal fuoco o meglio, dove non tiravano. Lì siamo rimasti la notte del 28, il 29 e il 30 fino a mezzogiorno del 31. Poi, di nuovo, ci danno l’ordine di avanzare. Ma questa volta per l’inseguimento: non c’è più nessuno davanti a noi. Passiamo la notte sulla Cima Fontanasecca. Ma fa molto freddo e riesco a dormire ben poco, sul fondo di una buca di granata, cercando di farmi riscaldare da tre o quattro miei soldati che mi faccio sdraiare ai fianchi e anche un po’ addosso a me. E’ ancora buio quando al mattino ci buttiamo giù per il monte ed è stata una corsa continua fino a Feltre dove passiamo la notte. Poi di nuovo avanti, continuamente. Tedeschi prigionieri, armi, fucili, cannoni, una confusione tremenda. E noi avanti, senza mangiare, senza dormire, avanti, sempre avanti. E la gioia dei borghesi dei primi paesi liberati! Piangevano tutti dalla consolazione; e le donne che ci raccomandavano di ammazzare tutti i tedeschi, anche i prigionieri. E qualcuno lo hanno accoppato loro, quelle donne. Ci raccontavano, piangendo, tutti i patimenti che avevano sofferto. Che vivevano ormai delle erbe dei prati. Che parecchi erano morti di fame e che, se non si fosse arrivati noi, sarebbero morti tutti, quell’inverno. I bambini ci seguivano, strascinandosi dietro, per la canna, i fucili austriaci. Abbiamo passato il vecchio confine trovando sempre austriaci che si arrendevano. Sul Monte Pavione, guardando in giù vediamo una malga dalla quale escono degli Austriaci che portano delle mitragliatrici. Crediamo che vogliano fare resistenza. Reverberi manda avanti il nostro plotone arditi e a me ordina di salire coi miei uomini più in alto sulla montagna per fiancheggiare sulla destra il resto del Battaglione. Ma non c’è resistenza: gli austriaci volevano solo rendere inutilizzabili le loro mitragliatrici buttandole nel laghetto davanti alla malga. 

Fa molto freddo perché ormai è sera ed io ed il mio plotone siamo quasi sulla cima del monte, a 2500 metri circa. Mentre scendo, incontriamo i prigionieri della malga che risalgono, diretti alle retrovie. Vorrei prendere il giubbotto di cuoio di un ufficiale perché ho freddo, ma poi non ne ho il coraggio. Passiamo la notte in questa malga Viderne. I soldati sono dentro, ma io e un altro Ufficiale, Sirombo, dormiamo appoggiati ad un mucchio di fieno, lì di fuori. Finalmente, l’altro giorno siamo entrati in Fiera di Primiero dove ci siamo fermati, essendo stato firmato l’armistizio. La strada da Imer a Fiera di Primiero era piena di carreggio austriaco, coi cavalli ancora attaccati. Io ho tre rivoltelle austriache, ma non sono riuscito a trovare un binocolo.

A Fiera di Primiero io e parecchi altri siamo entrati a cavallo, che avevamo staccato dalle carrette austriache. Ho trovato una valigia di un ufficiale con un po’ di biancheria con la quale mi sono cambiato. Ed ora non vi scrivo più. Vi scriverò ancora presto, se potrò. Ho tutte le scarpe rotte. E chissà quando arriverà il nostro bagaglio. Ma non importa. Sono vivo e tanto basta. Sono contento che mamma e Maria siano guarite. Anche Lydia è guarita e mi ha scritto. Bacioni cari a tutti. Allegri, che è finita. Bacioni, bacioni cari. Avete spedito la camicia ed i polsini? Se non l’avete ancora spedita, aspettate ancora fin che ve lo dico io.

Gino

Dopo la fine della guerra

Tornato alla vita civile, Luigi Mira svolge la propria attività commerciale nell’azienda di famiglia a Lecco. Ama la montagna, non è un alpinista, ma un escursionista di buon livello, amico di Ferruccio Grassi (presidente del CAI Lecco dal 1958 al 1966), Nino Castelli (ex ufficiale degli alpini, campione di sci e di canottaggio, a cui è cointitolato il rifugio Sassi-Castelli in Artavaggio) e don Giovanni Ticozzi (combattente della prima guerra mondiale incarcerato dai fascisti nel 1944, insegnante e uomo di grande cultura).

Nel 1935 viene promosso capitano e richiamato in servizio. Negli anni 1937-1940 è comandante della 47a Compagnia del Battaglione Morbegno, V Reggimento Alpini, Divisione Tridentina; nel “Morbegno”, che raccoglie lecchesi, valsassinesi e militari della bassa Valtellina, il capitano Mira ha come tenenti Domenico Riva, farmacista di Castello, Corrado Invernizzi, Giannino Vitali e altri lecchesi che gli sono molto legati.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale è mobilitato con il grado di maggiore nella II Base Tradotte Militari per l’Est, dirette al fronte russo. Di fatto rimane di stanza a Vicenza e a Castelfranco Veneto, dirigendo il traffico delle tradotte da e per il fronte. Forse giunge con un convoglio nelle retrovie del fronte russo. Promosso tenente colonnello, viene posto in congedo assoluto nel 1957. é decorato della Croce di Guerra al Valor Militare. Muore nel 1962.

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